Trasgressione jazzata

  a G.

Rivedendola oggi un sussulto mi ha pervaso

di quei sussulti silenziosi, timorosi dell’esporsi

a quel gelido volto di petali incandescenti

sull’altare il suono di un sax avvolge le tenebre

di supposizioni estreme.

Visto da qui sembra un poeta in viso asciutto,

poi esplora le menti, di tutti, nessuno escluso

di avarizia e ingordigia.

Io non posso stare fermo con la mente un solo istante

quel solo istante sarebbe fatale. Di una fatalità disillusa

disinteressata.  Di magiche pozioni riarse nella notte templare

di elfi nichilisti al bivio su strade sterrate di cadaveri.

Sospeso nel nulla io vedo nuocere a loro i seni dell’avvenire

di avvenimenti al bivio di strade autonome, invidiose, ardenti.

Poggia le mie (tue)  labbra sul mio anfratto più estremo di lucida e tenera

carezza al vento – voglio sentirmi vivo ! – di più di quanto

vorrei essere.

Feconda il partigiano della luce, del dolore, dei beni terreni e non

feconda il martirio di un qualche istante di pura follia !

Esiste una versione colorizzata della morte ?

o è una bobina impazzita ?

che va su e giù di immagini non decifrabili, non decifrate

non vampirizzate.

Supponiamo di vivere in un tubo di niente o di tutto – tutto è niente ?

Liberiamoci degli amanti, liberiamoci dell’albero degli i

m

p

i

c

c

a

t i       –      liberatemi di me.

Jazzando con la notte ho scritto il blues dell’atrocità

Invischiato di muschio appena cresciuto, appena innaffiato

su un tema già sentito.

Nella visionarietà del totale io cerco il totale che è visione.

Indigeni d’amianto invaderanno il sogno al suono di donne d’Algeri

come un cantico di sirene all’Esercito del Non Essere Nulla.

Diventiamo esseri del non-essere. Diventiamolo.

Altrimenti rischio di assumermi la responsabilità del centro,

del settore non toccato, della zona incandescente.

Fremiti di grilli in calore su davanzali stuprati da liti domestiche

dinoccolati ballano un valzer viennese su strade incise, su

strade con zanne di mammuth al posto dei segnali.

Vivendo ho inteso il non essere parte di nulla o l’esserlo

di tutto, quel tutto di troni ardenti.

Palpebre inchiodate, strappatevi quei chiodi a costo della cecità…

…vedrete di più.

Pazientate al suono di un gufo sul mare lunare.

Luna di metallo, di rame, ulula con me questa notte, ulula

per i condannati, gli oppressi, gli scontatori del karma,

figli dello zen, scontate !

Su rune celtiche voglio dormire stanotte.

Su picchi di streghe che streghe non sono.

In mantelli di roccia, scolpiti per l’ultima notte.

In un pezzo di carne staccata dalla fronte.

Good night.

Giuseppe Ceddia

Sette (?) atti nel delirio

                                                                                                              Cristo abbracciò la croce.

                                                                                                          E oserò io negare la sua immagine, quella della sua Croce ?

(J. Donne)

                                                                                                                                              Indossò i suoi vestiti, varcò la soglia e morì.

                                                                                                                                                                                                            (D. Thomas)

I

Quando ero bambino caddi.

Caddi sulle mani, me le guardai e avevo le mani di Abramo Lincoln. Un sogno così altro non è che un sogno. Ascolto fluidi suoni di chitarra. Dove sei amore mio, dove ?

Vigilia di Natale 2007, sta per volar via anche quest’anno, un altro pezzo di cuore che si stacca, un altro alito di respiro che prende il largo tra i campi di cotone di un immaginario Sud e il reale cemento cittadino.

Steso sul letto dove alberga la coperta di lana a quadri fatta da mia nonna dieci o più anni fa, testa al muro, penna in mano e pensieri che volano come piccioni schiaffeggiati dal vento.

Solo. L’odore di una morte invisibile, non fisica, non palpabile, m’assale.

Parlo con i libri, con il vino, con le sigarette spente che danno alla stanza un tanfo di chiuso, penso a lei. Il tanfo mi ricorda un’altra casa, quella in cui sono stato svezzato. Tra le gambe io sono stato svezzato.

Kevin Ayers canta Champagne cowboy blues con fare lento, dimesso, come un vecchio sceriffo di frontiera. Scatta un violino come un pugno nello stomaco.

Prendo un pezzo di salame, un tarallino, li metto insieme in bocca quasi fossero due amanti, bevo del vino e attendo la pagliacciata di quest’altra sera.

Mi ci voleva una sedia a dondolo color verde mantide (atea) che mi cullasse come un infante, come un mostro.

Vorrei sputare dal finestrino di un treno, a Milano, piovosa, ingrigita dalle facce dell’alta finanza e dell’economia nazionale. Penso a lei.

Il flusso dei miei pensieri si perde come aghi nel vento, il piede sinistro è congelato, quasi stessi andando via pezzo a pezzo. Un piede, poi la gamba, un braccio, la spalla, fino alla testa, fino all’oblio laocoontico che ti abbaglia la vita spesa a leggere, bere, dire.

Patetico e poco sacro delirio di solitudine.

Potrei trasformarmi. Magari in un samurai e farmi saltare la testa con una spada affilata, in un pellerossa che dandosi una lancia nelle costole se le fa schizzare via, in un uomo primitivo che blatera qualcosa poi muore privo di qualunque sensualità.

Ecco, siamo privi. Siamo assuefatti alla privazione. Ci piace privarci o essere privati per meglio ergerci a ruolo di vittima sacrificale, poveri reietti di questa società post-realistica e sub-urbanizzata così caotica che ci fa muovere come uno sciame di cicale che scrivono canzoni di protesta su qualche ramo di qualche quercia fuori città, tra una casetta di campagna e un pozzo, dal quale attingere l’acqua della nostra stessa ispirazione cantautorale.

Associazioni mentali.

Dove, ci chiediamo, saremmo soddisfatti ? Al caldo o al freddo ? Tra le braccia di una glaciale polacca o tra le gambe di una focosa cilena ?

La privazione. Ecco cosa dico, la privazione ci attanaglia le vertebre, si insinua come un’anaconda di sedici metri su per il culo per addormentarsi poi nella scatola cranica, attorcigliarsi al cervello e farci schizzare in movimenti surreali come un automa futurista, come una marionetta impazzita.

Noi non opponiamo resistenza e speriamo solo che qualcuno venga a bussare alla nostra porta e ci dica: “Bravo, hai vinto una nuova vita, piena di stimoli e tuoi simili”. Stronzate.

Invece bisogna darsi da fare, essere a volte spietati. Cercare quella belva che è in noi, farla scattare come un coltello a serramanico e radere al suolo gli avversari, prendendosela comoda, vivere di quel sano egoismo che sia il personale bastone di Abramo.

Dobbiamo essere dei nuovi profeti, profeti moderni di noi stessi, senza adesioni esterne, senza seguire lezioni di gente che si stima solo a metà.

Basta un po’ di vino, un paio di sigarette che vivono sapendo di avere in comune nient’altro che la stessa bocca, basta esplorare gli orifizi di cemento che affacciano nelle stanze della nostra selvaggia mente.

***

 II

 

 

 

Non toglietemi l’amore.

La cena è stata un disastro, un’orgia di ignoranza, di spiriti non eletti, di peccatori che chiedono redenzione.

I miei familiari sono vermi che ancora cercano la mela nella quale stabilirsi e partorire. Le minacce di mio padre sono il gradino più basso della sua lusingante e lusingata carriera. Un millepiedi con novecentonovantanove calli.

Il mutismo e la morte silenziosa, stavolta, faranno di me un santo.

Io non credo nel Natale, Gesù Cristo è nato ? Chi lo dice ? Chi è Gesù ?

La verità è questa, io non credo a Cristo figlio di Dio, credo a Cristo primo narratore colto dell’universo, spirito eletto, qualcuno avanti con la mente con pregi e tanti difetti. Umano ma non solo. Credo in un Cristo che ha ucciso, ha fornicato, picchiato e bestemmiato, un Cristo umano.

Ma le lacrime vengon prosciugate da altre lacrime.

Mi voglion ancora distruggere, non sono sazi, il braccio mi duole, scrivere è impresa biblica.

Ecco perché a volte, di notte, quando tutto tace, io parlo con quel dio prolungamento di me stesso e gli chiedo di farmi andar via. Per sempre.

Che stupri sono per le mie orecchie quei tappi che saltano da bottiglie di spumante, quelle urla di falsa gioia emesse dalla gente. No, la mia non è invidia dei loro egocentrismi che fanno a gara per imporsi. Provo pena.

La privazione della gioia è il dolore puro.

Io vorrei alzarmi, librarmi nel cielo, volare, stappare una bottiglia anch’io, fare l’amore, ridere, pescare una trota, cucinarla in un bosco, bere del vino rosso, morire e poi rinascere, iniettarmi la felicità con un ago invisibile esattamente al centro dell’aorta, vigilare sul mondo, reggere una fiaccola, gridare di gioia, erigere un mausoleo in mio onore. Questo vorrei. Che lei tornasse. E come una dea a più braccia mi togliesse il respiro e me lo restituisse sputandomi in bocca.

Resto invece fermo come il daino che attende di essere trafitto dalla freccia del cacciatore medievale.

Mi lecco le labbra, mi guardo allo specchio, nella mente un pluriomicidio, poi la resa.

Perdo, ma la vittoria – come un busto greco – campeggia nella mia mente.

***

 III

Natale sanguinante, famiglia in dissoluzione, mancanze e pensieri fissi, pugni al cervello, alcool.

L’opposizione umana a qualcosa è sempre così lieve, fragile, labile, che finiamo per non opporci proprio a nulla. Veniamo soltanto divorati, mangiati vivi dalla bocca del Saturno di Goya che ci sbrana l’anima, la carne, le viscere e le menti.

Domani è un altro giorno, ci diciamo, si potrebbe risorgere dalle ceneri, invece ci lasciam andare all’annientamento, l’autodistruzione brevissima e vigliacca. Più vigliacca dell’atto estremo di uccidersi con un colpo secco.

Una via crucis di autolesione al quadrato.

A volte il solo sentire la voce di tua madre che dice “E’ pronto a tavola !”

diventa un disturbo intollerante, ultrasuoni che perforano la tua vita.

Sembrano devastanti disturbi del sonno, quando il demonio ti parla all’orecchio. Sogni di premere il pulsante che accende la luce sul comodino ma non s’accende perché è il sogno nel sogno, è il metasogno che ti fa credere di esser sveglio, invece Morfeo gioca a scacchi con la mente tua e le tue palpebre.

L’erotismo massacrante che ti porta alla pazzia.

Sei uno schiavo nobile.

***

 IV

A un passo dal baratro sento di poter vivere a metà.

Stralunato e rinvigorito da nuove deliranti associazioni.

Ricordi del Marocco.

Così ostile alla modernità, così pieno di occhi scuri che sembrano truccati con una matita.

Qui in Europa è morta quell’ingenuità animale che caratterizza i loro gesti, i loro occhi, le loro risate genuine, strabordanti, forse poco eleganti, ma così sincere e amichevoli che il solo ascoltarle ti spacca il cuore, figuriamoci il vederle.

Per noi sono un pugno in pieno stomaco, di quelli che ti bloccano il respiro.

Quelle moschee silenziose, umide all’interno, ma col sole che le stupra dall’esterno, luoghi di raccoglimenti ultraterreni e pace estrema, estasiate autocelebrazioni della mente divinamente umana.

Le mosche assalgono l’uomo in gruppi , come partigiani uniti, senza traditori.

Diventa una sommossa popolare, poco elitaria, lontana dalla lotta tra formiche rosse repubblicane e nere imperialiste descritta splendidamente da Thoreau.

E poi la sabbia. La sabbia del Sahara, così scura e doppia, non paragonabile a quella delle spiagge del nostro Sud.

Anche se è “Sud” la parola magica, la parola della gente, della strada, dei vicoli malfamati, del cemento assolato, dei mercati, delle urla, dei delitti passionali, della morte, di un dito tagliato, del mare ormai sporco, del colore scuro degli occhi, dei tratti mediorientali che portano all’eccitazione perenne quel senso di possesso corporeo che logora e appassiona visceralmente.

Siamo sospesi tra un esasperante materialismo etico e corporeo da un lato, e un menefreghismo estremo dall’altro.

La bilancia non riesce a equilibrarsi, pende spietatamente sempre da uno dei due lati, non si trova l’equilibrio sacro, utopistico, saggio e selvaggio, che tanto si lotta per ottenere.

Un equilibrio che non troveremmo neanche se fossimo privati del cervello, del senso del dovere, del senso pratico dell’ignorante in noi assente, del senso teorico assente nel suddetto ma così spietatamente e brutalmente schiacciante nel nostro filosofeggiare cerebrale.

Affetti da un malato Romanticismo speriamo di trovare la cura nel rapporto sociale, nella mischia o, all’opposto, nell’estrema solitudine, nei miracoli della mente affidandoci a quel famoso dio (prolungamento di noi stessi) così idealisticamente esaltato e destrutturato da apparirci presente e assente nello stesso tempo, uccidendoci.

La natura è amica e nemica.

A volte siam così attratti dalla metropoli che schifiamo un bosco o un ruscello, altre volte vorremmo il perenne stato brado auspicando un’apocalisse che sventri il cemento cittadino.

Insoddisfazione perenne dell’uomo, dell’essere sub-umano che ci stiamo apprestando tutti a divenire.

Svuotati dei sogni, ci accontentiamo della parola frivola, del caffè, del fischiettare un motivo, di correre dietro l’amore, far sesso in un prato, cagare all’aria aperta, fumare una sigaretta.

Basta così e buonanotte.

Felicità ?

***

V

Intanto la penso.

Mi sembra assurdo che il solo vederti debba essere prerogativa di estranei e passanti e non del sottoscritto.

Questa penna che di lei scrive ma che non osa scrivere il suo nome.

La penna, se lo sapesse il suo nome, lo scriverebbe senza il mio consenso, senza l’aiuto del mio polso e delle mie dita.

O no ?

***

 VI

 

 

 

Nebbia così sottile che la vedi a un palmo d’unghia.

Lo sferragliare dei binari che odo ricorda urla da altri mondi, appartenenti ad altri esseri, altre entità.

Le due e trenta e non dormo, sono desto e vigile, vagheggio con la mente, imperterrito, ansioso, perseverante, pietrificato.

Pause e distruzioni alternate si muovono quasi fossero due giocatori di poker che alternano le mosse in una partita. Certo. Quella della mia vita.

Non si può lasciare il foglio bianco, bisogna lavorare, imprimere i dettagli, maniacalmente, divorando la vita, le pagine, i bicchieri e le zanzare.

Bere acqua pura e limpida come gli occhi di un infante innocente e non corrotto, pulito.

Così dovremmo riuscire a ritornare. Puri.

Pieni d’innocenza e di conoscenza, di voglia d’amore, sperare che una persona ti rapisca, ti tolga l’anima, il cuore, il corpo, spazzi via il dolore come il netturbino fa con la monnezza.

Deve avere la potenza di una bottiglia di vetro lanciata contro un muro con tutta la forza possibile da una mano troppo nervosa, troppo ansiosa, forte, insoddisfatta, vulnerabile, debole, triste. Bruciata.

Ci vorrebbe un marchingegno che ci spingesse il cuore sempre più su, sino a farlo cozzare con gli altri organi che, a loro volta, gli dessero la precedenza e lo facessero passare avanti fin quando esso non raggiunga il cervello e con questo instauri una lotta all’ultimo sangue, fratricida, di pura parità. Cuore e cervello, poi esausti, faranno l’amore e noi saremo finalmente felici, uniti, disperatamente flessibili alla vita. Ma cosa dico ?

Problema.

Avremmo cuore e cervello nella scatola cranica, sarà vuoto il torace, gli organi smossisi per far passare il cuore non troveranno più il loro posto originario, saranno disposti a casaccio.

Perché lui, il cuore, avrà trovato ciò che cercava, l’attraente materia grigia, pulsante d’attrazione come una pianta carnivora, come le sabbie mobili, come il sesso d’una giovane donna.

***

 VII

 

 

Ora avrei voglia di stendermi e prendere sonno.

Un lungo sonno costellato di sogni piacevoli. Ma cosa mi viene in mente ?

Il sogno piacevole è “delizia” del sonno, “croce” al risveglio, è sublime prima e mortuario dopo. È l’inganno. Uno strano, lento, decadente, sadico e supremo inganno.

Bisognerebbe forse “viverlo” il sogno, viverlo come se fossimo svegli, gestirlo con la nostra volontà, come se fossimo “padroni” (come tra l’altro dovrebbe già essere) del nostro sogno.

Non dobbiamo essere schiavi dei nostri sogni. Noi dobbiam essere i padroni e i sogni gli schiavi !

Divertirsi nelle associazioni è pura normalità umana, esercizio della mente fatto col sorriso sulle labbra, senza dolore, senza sforzo, pieni di fiducia verso noi stessi.

Ci piace vedere esseri buoni e malvagi che cenano assieme al banchetto per l’eternità, brindano alla vita eterna, al valore millesimale di un istante d’esistenza. Un po’ come quei quadri di Bosch, così astratti nella loro forse fin troppo reale e realisticamente affranta manifestazione visiva della vita.

Volontariamente perdersi nella selva oscura, non smarrirsi come accadde al nostro sommo poeta, ma andare noi incontro ad essa, volendolo.

Senza nessuna guida ad indicarci la via, far fuori le fiere sul nostro sacro cammino.

Un pugnale in una mano, un’accetta nell’altra e una rosa rossa tra i denti.

I toreri della vita. Il torero sfida l’onnipotente assurdità della vita.

***

VII  (2)

 

 

Ci si può non ricordare dell’ultima parola scritta.

Ma non dell’ultima pensata !  Di quella che ci ronza nel cervello come un bruco impazzito.

Quella casa così satura di odore chiuso.

Le mie scarpe sporche che lasciavano ovunque impronte, il riso cotto solo per me, il finto sonno sul divano, il cappello sul capo, tolto soltanto un attimo prima dell’orgasmo. Si faceva l’amore, non so neanche perché.

L’incidente all’incrocio di due strade, la piroetta, la morte intravista e salutata.

Uno spezzatino umano bollente condito con arsenico e nitroglicerina.

Addio ai campi di margherite velenose, montagne lucane senz’anima ma vive, addio ai fantasmi dei vari natali, al ghetto del giorno dopo, alla vulva incantata, stupida prugna matura.

Troppo matura.

*****

Giuseppe Ceddia

 

 

 

flusso d’incoscienza coerente (parte 0)

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Nietzsche e la poesia – Lunedì 4 Giugno

Stilo Editrice

 

 

Al caffè con Socrate

 

Filosofia o poesia?

 

 

Lunedì 4 giugno, ore 19,30

 

Presso Nessun Dorma, via Fiume n. 3

BARI

Quello tra filosofia e poesia è sempre stato un rapporto davvero molto strano. Spesso i filosofi hanno considerato i poeti o con diffidenza e disprezzo, oppure con ammirazione e rispetto quasi sacrali, e comunque mai con indifferenza: invasati, incantatori, pericolosi corruttori di giovani, come per un certo Platone, o inarrivabili e misteriosi profeti, intermediari destinati di una parola che travalica l’ambito stesso dell’umano e del divino, come per Heidegger, i poeti non hanno mai smesso di affascinare e di inquietare la riflessione filosofica. Mossa dall’amore per la conoscenza e per la verità, la filosofia si è trovata a fare i conti con un’arte, quella poetica, che si prefiggeva finalità a volte diametralmente opposte a quelle del puro sapere.

Ma sono davvero così lontane tra di loro la filosofia e la poesia? Non le accomuna forse una preziosa “inutilità”? Cosa nascondono le loro strutture di pensiero? E i loro linguaggi? Qual è il senso della creazione artistica e di quella filosofica? Se i poeti mentono troppo, come si lamentava Solone, non sono stati proprio i filosofi a indagare la natura e l’importanza del mentire?

Queste sono solo alcune delle domande a partire dalle quali si discute liberamente al “caffè filosofico” che si terrà a Bari il 4 giugno presso il Nessun dorma, in Via Fiume n° 3, dalle ore 19.30 in poi, dove un infaticabile e acuto tafàno-filosofo, Mario De Pasquale, si ostinerà a tenere svegli i convenuti – come esorta il nome del locale – utilizzando la sua straordinaria capacità di ascoltare e dialogare. A riflettere con lui, e ad interrogarsi interagendo col pubblico, interverranno Antonietta D’Alessandro, docente di Storia della filosofia antica all’Università di Bari e Michele Bracco, docente di Filosofia e Storia al Liceo classico e linguistico “C. Sylos” di Bitonto, curatore con Annalisa Caputo di un testo appena pubblicato intitolato Nietzsche e la poesia (Stilo, Bari 2012), un lavoro scritto assieme ad altre tre giovani studiose di Puglia in cui si sonda con perizia e passione il profondo e complesso rapporto che lega il grande filosofo tedesco con la tematica della poesia, ma anche con quella della musica e dell’arte in generale.

Soffro, sono, sogno…durante il sonno. La lettera essenziale.

Certe mattine, al risveglio, si ricordano i sogni della notte quasi fossero delle pellicole che hai visionato da dormiente. Il passato, come al solito, si diverte spesso nel risalire a galla proprio quando si è più vulnerabili, durante il sonno.

Il fatto che tra so(g)no e so(n)no cambi una sola lettera che, eliminata, dà l’essere (sono), la dice lunga sulle peregrinazioni dell’anima e dell’inconscio che avvengono mentre tace il corpo.

Sogno: attività psichica che si svolge durante il sonno/contenuto d’immagini e di fatti che si manifestano in tale attività (questo dice il Devoto-Oli).

Ma forse sognare non è solo rivivere ma anche sperare. Il sogno si colloca in quella posizione mediana che separa il già vissuto da quello che si vorrebbe vivere, è il feticcio del passato da bruciare e il golem da adorare nel processo di volontà che ti fa sperare qualcosa.

Altra cosa è il sognare da svegli, il sognare a occhi aperti, lì vi è una presa d’atto, una coscienza all’erta che rende comprensibile l’azione, vivo il desiderio e il pensiero, tenace la speranza.

Durante la notte invece, mentre il mondo tace, lo scherzo messo in atto dal sogno crea immagini, voci, situazioni, persone, parole, delusioni, atti.

Chissà se esistono i sogni collettivi, se nello stesso istante due o più soggetti decidano di collegarsi oniricamente come fossero connessi a un qualunque computer.

Può il sogno essere utile nel creare una storia, per questo continuo a dormire con il taccuino a pochi centimetri, può essere docilmente veritiero e allietarti la giornata, può essere così tremendamente bello che, al risveglio, scoprire che solo di sogno si è trattato, risolverebbe il tutto in una delusione che sfocia nella depressione acuta.

Resta da capire dove risiede la vera vita, il processo esistenziale in divenire che ci caratterizza. E se la vera vita fosse quella che si svolge in sogno e quella che noi definiamo reale invece fosse una maschera abominevolmente credibile? Non scomodiamo Pirandello né tantomeno Calderón de la Barca, scomodiamo la nostra storia personale.

Ognuno di noi ha sicuramente qualcosa da raccontare, ognuno di noi – anche in minima parte – sa di “essere” qualcuno, vuole rendere la sua vita “storica”, vuol essere leggenda in piccolo, poi esiste una realtà con la quale scontrarsi.

Ci sono vite diverse, storie diverse, modi di affrontare l’esistenza diversi.

A me sembra che, nella non diretta volontà che l’uomo ha di sognare (non scegliendo il come farlo e il quando farlo), si è vittime dei sogni durante il sonno. La tristezza invece risiede nella defunta voglia di sognare e sperare a occhi aperti. Questo sarebbe anche una forma d’arte, di creazione, una proposta di vita.

Empatia sociale, sposalizio con gli avvenimenti del mondo, lacrime espresse anche per chi ci è lontano. Non importa il dolore se questo è fonte di esistenza. L’aspirazione alla felicità dovrebbe essere un diritto. Ma ci si mette di mezzo l’incoscienza dell’uomo imperfetto.

Soffro dunque sono…o dunque sogno…durante il sonno.

Cosa riesce a fare l’assenza o lo spostamento di una lettera lo sa solo Dio…o qualcun altro.

Giuseppe Ceddia

Il crudo minimalismo di Agrimi

I racconti di Niccolò Agrimi, abruzzese di nascita ma pugliese d’adozione, hanno tutti alla base un’ottima idea di partenza. Laureato in filosofia e Dottore di ricerca presso l’Università di Bari, Agrimi ammette di non essere lettore onnivoro, cita però quelli che sono gli scrittori a lui più cari ossia Borges, Lansdale, Bukowski, Bunker, Ellroy, Bellow, etc.

E in effetti non si può negare che le influenze dei suddetti autori sono ben vive e presenti nella scrittura di Agrimi.

I racconti sono ora editi dalla Stilo Editrice (Bari) nell’ultimo volume della collana Nuovelettere dal titolo Sgualciti dalla vita – Racconti nudi e soprattutto crudi (pagg.104 – €10).

Sono diciotto brevi racconti che oserei definire – a loro modo – minimalisti, storie quotidiane che assumono caratteristiche di originalità, incontrollati istinti umani che vengono narrati dall’autore con piglio sagace e umoristico, anche laddove la drammaticità dell’evento raccontato poco ha di leggero.

Storie di dignità umana e turbe mentali, di amori non corrisposti che si tramutano in desiderio per se stessi, storie di boxe e di denti marci, di cani che muoiono e rapine sbagliate, di codardia che colpisce alle spalle e di dostoevskijani vecchi pontili, di piccole manie e torture che si subiscono al cinema, di fantascienza e pistole nelle tasche sbagliate, di treni borgesiani e di crudezze dell’anima.

Una menzione a parte, dunque speciale, merita quello che – per chi scrive – è il migliore dei racconti, ossia proprio quello che chiude il libro, racconto dal titolo Una fortuna sfacciata, del quale preferisco non rivelare assolutamente nulla. Posso solo dire che la sua crudezza appunto (più che la sua nudità) ha destato alla lettura un effetto assai positivo e non dico un’eresia se affermo che solo questo racconto varrebbe l’acquisto del libro di Agrimi.

In un periodo in cui, paradossalmente, sono più i soggetti che scrivono di quelli che leggono, fa piacere trovarsi tra le mani questo piccolo libro e far scorrere le pupille sulle righe che compongono questi racconti, che in sé contengono il balsamo della sincerità narrativa.

Agrimi scrive di cose che tutti pensiamo e proviamo, scava nella mente umana e cerca di scovarne i lati bui, quelli del “preferiamo che rimangano sconosciuti”, in questi racconti vengono aperte le ante degli armadi che contengono gli scheletri delle vite dei protagonisti.

Sembra che a tessere i fili dei fatti narrati vi sia un povero diavolo che, nella sua condizione esistenziale, sa essere giullare ma anche intriso della più spietata cattiveria.

Proprio quell’ultimo racconto, chissà se volontariamente messo lì a suggellare la chiusura del cerchio, è contraltare drammatico al dipanarsi del filo della vita.

Forse non esiste la cattiveria umana, esiste solo ed esclusivamente la malattia. I malati però vengono definiti cattivi dalla società, invece di essere curati da chi di dovere.

Siamo un po’ tutti – in fin dei conti – sgualciti dalla vita, da un’esistenza che mai è come vorremmo, da un quotidiano che, assai spesso, è avversario ostico e capace di tutto.

Un’eventuale prossima prova dell’autore – se riuscita –  sarebbe ulteriore corollario a quanto suddetto, alcuni racconti avrebbero sicuramente meritato uno svolgimento migliore, a volte ci sono delle storture concettuali, il cerchio non sempre si chiude a dovere, ma nella media delle “opere prime” sento di consigliare questo testo.

E poi, ripeto, quell’ultimo racconto…

Giuseppe Ceddia

Io salto – dal dio (prosa) all’uomo (poesia)

Io ti scrivo, Dio che non sei nato, alle porte del mondo, evirato dal connubio adolescenziale dell’avvenire, altrimenti esausti di troppe moine o troppi figli assurdi sul grembo, annientati dall’aumento in percentuale esausto del destino, senza belve da sfamare, senza figli da educare. Vuoi il cuore pulsante di pungiglioni sulla faccia che non s’accorga d’essi?

Sii di ferro e da traino, da operaio a operaio, se la mente me lo consente, io, ora………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………

 

 

 

 

 

 

 

 

……………………….salto,

 

sul filo elettrico del cambiamento d’onda, sulla virgola di un vulcano che di lava si sazia,

 

………………………salto,

 

sulle lucciole della morte al lavoro, sulla coesione delle vite, che s’ammansiscono solo………………………………morendo.

Giuseppe Ceddia

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                              

borgesiana anno ignoto

Interrogarsi per anni sulla veridicità dell’esperienza onirica rapportata a quello che noi crediamo il reale non è servito a nulla, almeno non è servito al “mio” nulla.

Sogno è attività cerebrale labirintica, nulla è se stesso nel sogno, nulla lo è all’infuori d’esso. La situazione attuale mi pone nella condizione di uomo che cerca un appartamento. Questo è un dato reale. Un appartamento possibilmente con due stanze, una in cui situare i circa milleseicento volumi che posseggo, l’altra per contenere un letto, un armadio, qualche mensola possibilmente vuota. O piena. Non saprei, tantomeno credo mi importi. Mi interessa soprattutto che i miei libri si sentano a casa, preferisco stiano loro bene, non tanto io quanto loro.

C’è questa casa, forse abbandonata. Ma è troppo grande per me, decisamente troppo grande. Si sviluppa in lunghezza, un corridoio centrale funge da vialone sui cui lati si aprono stanze su stanze. Quante saranno? Otto? Dieci? Una luce in fondo al corridoio indica che questa casa non è situata nel bel mezzo del nulla o in un universo parallelo, è qui, su questa terra, su quale terra? Su questa.

Buio. Ecco che, se la mente dovesse restare fedele e non scollarsi dal ricordo (o dal sogno) rammento una grande oscurità, pareti scure, stanze scure, pavimento scuro. Solo una luce in fondo, che non riesce però nel suo sprigionarsi a illuminare a dovere la mastodontica magione. Forse intorno vi è un bosco, forse sono gli alberi che incutono timore alla casa, l’oscurità è frutto dell’ombra che i vegetali proiettano (l’ombra si proietta come la luce nei risvolti onirici) sulla casa, l’ombra contiene in sé la casa-figlia dell’immaginario fiabesco. O favolistico. Qui non ci sono animali però. Propp va a farsi benedire.

Io dovrei vivere in questa casa, grande, troppo grande per me, lunga e buia, con molte stanze, forse tutte uguali.

Si narrava un tempo che una casa sognata è simbolo dell’anima, si diceva che una casa buia è indice di anima triste e melanconica, quella luce alla fine del tunnel è la salvezza, o pseudo tale, la salvezza che non si raggiunge, vuoi per scelta personale, vuoi perché la maledizione della vita si aggrappa come sanguisuga all’uomo in bilico, non certo in rivolta.

Mi parla una donna, pare essere mia zia, una persona importante nella mia vita, per la mia cultura, per il mio modo di vedere le cose. C’è un’altra donna, la prima donna che ho amato, un angelo biondo con gli occhi azzurri e pallidi come la sua pelle, con le ossa piccole e fragili, con la bocca che sapeva di nudità come se il velo sottile di pelle che ricopre le labbra fosse stato sollevato e fosse rimasta la carne viva e fresca della bocca, quando senti che la carne nuda fa impressione al solo sfiorarla perché si teme di lederla.

Una casa disabitata che però mi si dice animata quando nessuno lo sa. Quando nessuno lo sa dalle finestre entrano tanti ragazzi che festeggiano in questa casa, ridono, scherzano e suonano la chitarra. Ho pensato subito che fossero dei fantasmi. Ragazzi morti anni addietro.

Mia zia mi dice “non puoi capire, ho visto delle ragazze bellissime lì”, io taccio, io non parlo, il silenzio cerca di essermi complice nella comprensione, io non so cosa sto vivendo, non so cosa avviene in quella casa, vorrei forse che ci fossero delle ragazze bellissime nella mia casa, degli angeli vestiti a festa, solo i fantasmi forse possono illuminare l’oscurità reale del quotidiano, la tristezza infinita e gelosa di sé, la cancrena scura e melmosa della vita.

Poi il bosco (forse) e il buio, un mio amico mi guarda e mi dice qualcosa. Non è un caso si tratti di qualcuno che ha visto il mio cambiamento. No, che dico, è soltanto un mio amico che ha lo stesso nome di colui il quale ha visto il mio cambiamento, ride nel sogno, ride nel reale.

Io sono empatico e sento che sta per succedere qualcosa al mondo, alla mia vita, sento che il divertimento e il dolore stanno per sfidarsi nell’ultimo duello.

L’ultimo. Da qui il verdetto finale. Eterno.

Io sogno di sognare ma, al contempo, vivo il sogno da sveglio. Seconda vita. Passionale, coeva alla realistica situazione. Cosa cercano di dirmi i fantasmi, la gioventù, la bellezza di queste ragazze, le persone intimorite a me vicine?

Un insieme di persone condividono il mio meta-sogno, lo rendono gioioso, eppure una cappa scura sovrasta tutto, è la perdita di qualcosa, dell’innocenza, la presa d’atto che lo scherzo è terminato.

Si diceva che una vecchia casa in periferia fosse abitata da spettri, giovani spettri senza forma, giovani ragazze morte in passato, giustiziate per essere donne, per essere belle.

Io nel sogno cito Sherlock Holmes, perché voglio venirne a capo di questa situazione. Ma forse sbaglio citazione.

Dovrei solo tacere e stare lì ad attendere il risveglio nel risveglio, devo aspettare di svegliarmi due volte, di indagare due volte, di vivere e morire due volte.

Un’indagine onirica.

Solo quella frase mi rimane impressa, quella frase che squarcia il buio circostante, quella frase che – nel suo essere fantasma – è l’unico momento in cui il sole dell’anima urla sazio.

Tu, lettore, non puoi capire cosa avviene in quella casa quando nessuno lo vede, quando nessuno sa.

“Lì ho visto delle ragazze bellissime”.

Giuseppe Ceddia

19 Maggio 2012

Rifiuto d’infanzia è rifiuto di vita,

saziati di sangue rifiutate la vita.

Adolescenza sciocca sì ma che non merita la morte,

Da mani stolte, sudicie come i bubboni del triste demone.

Non parlo d’innocenza, perché a nessuno forse è data

Ma di vita …quella che ci han destinata.

Adolescenza inquieta sì ma che non merita il sangue

Liquido sacro e denso…ma già troppo sparso

Italia, paese non più mio…

Sei ormai senza speranza.

Le radici sono spugne, intrise di melma viva

L’ossigeno è mefitico veleno.

Eppure l’arte, che sublima la storia

Ti è così cara che mai morte dovrebbe leccarla.

Ci siam ridotti male, stivale pseudo-unito

Se la vita vola via come sabbia nel mare.

Oggi, lo Stato non è stato…in grado

Ancora …mai più…di vedere.

Restano solo le madri, che sono tutte sante e puttane

Piangenti ancelle della vita che vola,

resta il secco sangue sensuale senza seme sacro

lì, sull’asfalto.

Una bomba e una scuola.

Una morte e il sapere.

Una vita e il suo contrario,

speme morta.

Volata.

Derisa.

Troppo tardi…vita…

T’affacci a rimuginare.

Adolescenza spuria sì…ma ingenua.

Volubilità che uccide.

Le membra squarciate sono di tutti,

di tutti i savi, di tutti i santi.

Pregate, ognuno il proprio dio,

ognuno il proprio io.

Giuseppe Ceddia