senza titolo

Sia chiaro, non è mia intenzione farvela tanto lunga (ma neanche un po’)…i fatti però sono fatti e io non posso negarvi l’esposizione del fatto in sé, del minimo dettaglio ancestrale che s’annida nella mia testa, dell’escremento miniaturizzato dell’elfo che il mio cranio ha partorito. Va bene, basta. Iniziò così…
Una mattina qualunque di un mese qualunque ma di un anno ben stabilito osservai rintronato esemplari umani senza forma e dissi: – hai capito? Forse davvero sono rimasto indietro nella comprensione socio-antropologica dell’evoluzione, davvero mi posso vantare di non aver capito nulla. Niente di tutto ciò, un attimo di pazienza, statemi a sentire…
Guardai un paio di caratteristiche comuni al popolo, le assimilai, le studiai su me stesso, avrei dovuto compiere una scelta ben precisa: camuffarmi da loro o restare me stesso? Con tutti gli annessi e connessi che il caso comporta non avrei mai potuto cambiar pelle, mai avrei potuto sognare di un viaggio in un paese asiatico dove io trovavo il libro mancante della collezione Novecento di Repubblica e invece mi vien data una busta di Lsd e oppioidi vari.
Restava la scelta finale. Non mettetemi ansia, vi giuro che pian pianino capirete come finirà questa storia. Restava l’impiccagione del daimon all’albero segreto del giardino di A. una qualunque pelle chiara con occhi chiari che aveva deciso, per l’ennesima volta, di prendere a calci il mio cuore come lattina trovata all’angolo del ponte, quello che porta nel luogo del non ritorno.
Continuò così, vivevo a metà. Fu una mattina, durante la visita dal medico, che la megera pazza mi scambiò per suo figlio defunto urlando a squarciagola “Colin!!!”, io feci finta di nulla, capii che le cataratte cerebrali della poveretta avevan disossato la materia grigia informe, la noce del cervello anziano. Andai avanti, esser scambiato per un morto mi mancava, ma forse il tutto era indice del fatto che iniziavo a scomparire, a farmi ectoplasma, spettro squattrinato di strade dissennate.
“La fine oscura della strada” era il titolo di una canzone soul che tanto amavo, il tutto sta nel riuscire a vederla…se tutto è buio non distingui un bel niente, luce e ombre, svariati film noir dei quaranta mica li guardi con l’occhio arrossato del dopo orgasmo, li guardi come si guarda la propria mamma, con gli occhi dell’innocenza non castrata, paludosa melma di un sicario deforme e sfigato.
Non potevo più restare in quei luoghi, i ricordi mi massacravano la mente. Una mattina, dopo aver fumato un paio di sigarette, seduto sul letto a guardare la parete giallognola, presi una decisione, mi alzai, mi lavai, presi il mio bagaglio e andai in stazione. Il primo treno per un luogo oscuro sarebbe stato casa mia per le prossime ventiquattrore.
Prima però mi restava da fare una cosa, spedire un topo morto, con il mio vomito a condirlo, in un sacchetto della spesa, spedirlo a chi so io, altro che teste di cavallo mozzate, voglio vedere a uno spettacolo simile come reagisce la pseudo-delicatezza femminile dei miei stivali. Saggia scelta, mi dissi, l’anonimato è sempre la quintessenza di un atto estremo e nobile. Poi partii, con la coscienza pulita, al contrario di altri non avevo bisogno di stendere panni neri sugli specchi, io no.
Dopo ventisette ore di viaggio arrivai lì, nel paese dove i pioppi urlano prose sbilenche, dove la scorciatoia dell’anima si fa urlo innocente di un parto creativo. Allora entrai in un negozio e comprai una penna e un quadernetto, scrissi qualche pensiero sulla prima pagina, una lacrima bagnava il mio occhio sinistro. Io piangevo e non sapevo perché, eppure non pioveva.
Una cittadina senza ombre mi accolse, un gruppo di pederasti punkettoni mi scrutava da sotto la pensilina di una fermata del bus, li guardai, mi passai la lingua sulle labbra, loro si ingolosirono, mi avvicinai e dissi che, anche se non eran i miei tipi, comunque li amavo. Dopo qualche secondo si bagnò anche il mio occhio destro.